Insanguinata ed in evidente stato confusionale, una ragazza in calzini strappati e cappottone si trascina nella sterpaglia di una campagna. Sudicia e stremata, si avvicina man mano ad un imponente struttura in stile vittoriano, mentre l'inquadratura indugia sui classici volantini "missing" che raffigurano il suo volto e quello di altri ragazzi. La giovane inciampa nei corridoi deserti di un lussuoso college inglese per raggiungere il
telefono e chiamare il soccorso, ma non riesce a far altro che urlare. Si tratta di Liz. Lei e tre suoi compagni di studi sono scomparsi da diciotto giorni.
Liz è confusa, spaventata, sofferente. Alla psicologa (Embeth Davidtz) spetta il compito di capire e, nel caso, denunciare. Dopo non poche esitazioni, Liz inizia a raccontare.
L'idea di rinchiuderli è stata di Martyn, migliore amico di Liz, che, innamorato di lei dall'età di undici anni, voleva dimostrarle che Mike, il ragazzo per cui si è presa una cotta, non vale poi questo granché. Così Liz, Frankie (giovane bulletta che usa Liz solo per il profitto scolastico), Mike (l'oggetto del desiderio di Liz) e Jeff (migliore amico di Mike) decidono volontariamente di farsi rinchiudere in un rifugio bellico per evitare la gita di geografia, a patto che Martyn torni ad aprire dopo tre giorni.
Ma Martyn non torna. "Non è mai tornato".
Oppure a non tornare è il racconto di Liz? Dove sono gli altri?
Il racconto di Martyn, spocchiossetto convinto di poter tenere a bada i figli di papà del college traendone profitto, infatti, si preannuncia molto diverso. Nella sua versione Liz e Frankie sono amiche per la pelle, accomunate dallo stesso livello di superficialità e promiscuità. Inoltre Martyn afferma di non avere la chiave del bunker, o meglio, non averla più, da quando lui stesso, ancor prima della gita, la ha affidata a qualcun altro.
È solo a questo punto che Liz inizia a ricordare. E quello che le torna in mente, raccontato alla psicologa (che rappresenta il punto di vista dello spettatore) in quello stesso rifugio, lascia senza parole. Fin dove può spingersi una personalità border line mossa da un'ossessione che chiama indebitamente amore?
Nonostante la regia nervosa, misteriosa ed a tratti horror di Nick Damm, The Hole non ha mai avuto il risalto che avrebbe meritato, sia a causa di un paio di problemi nella sceneggiatura - che, sbrigativamente, salta sviluppi che la avrebbero resa ancor più interessante in favore di un alcune soluzioni un po', come dire, alla cazzo - sia perché il film è uscito nel 2001, anno nel quale il thriller - ed in particolare il thriller psicologico - era ancora ad alti livelli e si poteva ancora pretendere. Ad averceli ora, quei livelli...
Oltre che alla regia moderna e nevrotica, la riuscita della pellicola è dovuta all'ambientazione, un rifugio della seconda guerra mondiale buio, sudicio e claustrofobico, ma soprattutto all'interpretazione di
Thora Birch. La sua Liz è perfetta nella sua innocenza e nella sua perversione. Thora, figlia di due attori porno (pare siano entrambi in
Deep Throat, ma verificate voi), all'epoca veniva da quel colosso di
American Beauty (1999) e rappresentava non solo un concentrato di capacità attoriali, ma anche un intrigante mix di morbida femminilità. In tanti avremmo puntato su di lei all'epoca, che è invece poi sparita dal grande schermo, dato che l'ultima volta che l'ho vista era
in un bosco con i Limp Bizkit assieme a due cose che non avrebbe dovuto fare mai (oltre ad andare nel bosco con i Limp Bizkit): diventare bionda e dimagrire.
Ma in The Hole c'erano anche, nel ruolo della superficiale Frankie, Keira Knightley, all'epoca quasi esordiente sul grande schermo, prima di quella roba su Beckham e molto prima di quella cosa dei pirati, e, nel panni del ragazzo-oggetto Mike, uno sbarbato Desmond Harrington che poi sarà Quiin in Dexter.
In sostanza The Hole mescola un crescendo thriller ad un'ambientazione e ad alcune scelte tendenti all'horror, buttando qui e lì le basi di spunti interessanti (l'estremizzazione dell'apparenza, la mancanza di morale di alcuni giovani, la superficialità di altri, la totale assenza di genitori che pagando una retta credono di adempiere al loro dovere) per poi, purtroppo lasciarli a margine. Anche il plot twist di per sé, in un'epoca in cui il plot twist andava via come il pane, pur essendo efficace, avrebbe amplificato il suo effetto se fosse stato distribuito un po' per volta.
Ma queste piccole critiche, che potevano stare in piedi al momento della sua uscita, sembrano mere baggianate adesso. Adesso che il thriller deve trattare lo spettatore come un bambinetto e condurlo, prendendolo per la manina, al famigerato spiegone.
Quindi no, ritiro tutto: The Hole, tratto dal romanzo After the Hole di Guy Bart che non ho mai avuto la fortuna di leggere, è un film ben girato, ben recitato e tutto sommato scritto in maniera dignitosa. Avrebbe potuto essere ben più di questo, ma, ehi, siamo nel 2014, non possiamo lamentarci.
La chiusura, poi, è terribilmente sleale, in qualsiasi modo la si voglia considerare.